CITTA’ GLOBALIZZATE E CAPITALISMO POST-MODERNO

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di Romano Martini e Cristiano Luchetti

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L’attuale integrazione economica globale insieme al boom delle regioni extra-occidentali (Asia, Africa, aree del Pacifico) ridefinisce, con un vorticoso moto che appare continuo e incessante, il sistema mondiale post/neo-coloniale dello scorso secolo. L’odierno “globale” restituisce uno scenario connotato da equilibri politico-economici incerti, le cui traiettorie risultano assai sfuggenti. Il secondo millennio vive ancora una profonda crisi, i cui effetti o risvolti non appaiono facilmente prevedibili. Ciononostante i tentativi in corso di ricomporre strutturalmente i processi di accumulazione e valorizzazione del capitale ben si abbinano a una determinata produzione dello spazio urbano.

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Sebbene non si presentino caratteri sempre omogenei/unitari a livello internazionale, almeno in tendenza più di un parallelismo può riscontrarsi sul piano di una riarticolazione verticale/gerarchica degli spazi e dei luoghi della produzione-riproduzione dei rapporti sociali entro il perimetro definito dai circuiti della valorizzazione capitalistica.

Il modello delle “città globalizzate” sembra realizzarsi con caratteristiche che mostrano alcune parziali uniformità a livello planetario.

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Gli interessi e i conseguenti comportamenti assunti dalle classi dominanti, nello scenario global, si mostrano capaci di astrarsi del tutto da una specifica dimensione tellurica/territoriale. In quest’ottica la “dimensione” privilegiata è “cosmopolitica” e, per così dire, “aereoportuale” (un classico “non-luogo”), lungo flussi e traiettorie che -per l’appunto- astraggono da qualsiasi radicamento e da qualsiasi legame con spazi concretamente definibili come “luogo” o “territorio”.

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Osservando dalla parte rovesciata la “piramide” configurante gli attuali rapporti sociali-spaziali, si mostrano in superficie dinamiche che accompagnano una progressiva “turistificazione” delle città-metropoli, con un marketing urbano volto a promuovere “città-brand”, “città-evento”; in definitiva per attrarre masse individualizzate all’interno di permanenti “Expo”, “Disneylands” o “Las Vegas”, con tutti i corollari del “falso” programmato sotto il dominio della rappresentazione spettacolare [cfr.: Benjamin, 1995; Debord, 2005].

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Da un altro lato, internamente agli stessi processi, l’attuale produzione dello spazio urbano espelle dai “centri”, verso ipertrofiche neoperiferie o territori “del nulla”, una massa di emarginati e/o di forza-lavoro ipersfruttata (paradigmatico il “caso Dubai”), secondo un rapporto di “cattiva dialettica” tra metropoli-colonie.

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Se questi sono processi astratti (in quanto prevalentemente legati a un capitalismo di tipo estrattivo [cfr. Harvey, 2012] per lo più riferibile alle logiche della rendita –immobiliare- e della finanza), occorre allora trattarli come la marxiana “astrazione determinata-reale”. Esiste pertanto un modello euristico per leggere quel processo che Henri Lefebvre [1989] designava come “metamorfosi planetaria” della città, il cui esito sarebbe la dissoluzione della città stessa?

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Deterritorializzando a livello planetario i flussi (finanziari, informatici, mercantili, migratori ecc.) che comanda, l’ultimo capitalismo depriva l’ex “primo mondo” del privilegio geografico, politico e culturale goduto per secoli. Osservava Rem Koolhaas come le metropoli contemporanee sorgessero e crescessero soprattutto in Asia, nonché come, in definitiva, la «globalizzazione» trasformasse il linguaggio urbano in «Junkspace» (sia come progettazione/pianificazione dello spazio sia come consumo di suolo).

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Le «drastiche trasformazioni della globalizzazione che hanno spazzato via, all’apparenza per sempre, il classico repertorio di archetipi che avevano definito la nostra nozione di città: viali, piazze, e le regole in base a cui erano connesse, gli schemi tipologici secondo cui potevano essere organizzate», stanno altresì decretando «il declino dell’Occidente nella formulazione della città, iniziando a fare ipotesi sulla natura delle modernità non-occidentali emergenti in Africa, nel mondo arabo e in Asia […].

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La rapida espansione della moderna città asiatica e africana –a un ritmo di crescita tre volte più alto che in Occidente- è cominciata nel momento in cui “noi” abbiamo smesso di pensare la città. […] Il fatto che questa accelerazione avesse luogo in sistemi politici che erano differenti dalla nostra democrazia –condizione che “noi” consideravamo ancora necessaria per generare la “civitas”- significava che le città si stavano dispiegando “fuori dalle nostre mani” in territori politici sconosciuti.» [Koolhaas, 2010: 7-8]. Nell’attuale modo di sviluppo urbano si tratta di valutare un sisma occorso negli schemi della razionalità –lato sensu- Occidentale: il rilevamento di una genesi non-democratica delle città-metropoli contemporanee enfatizza la stretta interdipendenza fra pensiero, politica e ordinazione-organizzazione degli spazi –urbani e non- del vivere umano.

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L’architetto olandese scriveva tutto ciò diversi anni dopo la “caduta del muro di Berlino”. Appunto nel 1989, Henri Lefebvre coglieva parimenti profonde mutazioni in corso d’opera. Discutendo dell’estensione planetaria delle forme urbane, avanzava l’ipotesi critica secondo cui si era prossimi a «un periodo transitorio di transizione, in cui l'urbano e il globale si conformano e si perturbano reciprocamente» [Lefebvre, 2017:236]. Ipotesi che conduceva a una tesi impietosa, non dissimile da quel “disincanto postmoderno” di Koolhaas. La «planetarizzazione dell’urbano» è in effetti avvertita come una vera e propria «minaccia»: «Se non interverrà nulla per controllare questo movimento, nel corso del prossimo millennio l'urbano si estenderà su tutto lo spazio.

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Questa estensione mondiale contiene il grande rischio dell'omogeneizzazione dello spazio e della scomparsa delle differenze. Ma all'omogeneizzazione si accompagna una frammentazione. Lo spazio si divide in particelle acquistabili e vendibili il cui prezzo dipende da una gerarchia. È così che lo spazio sociale, omogeneizzandosi, si frammenta in spazi di lavoro, di piacere, di produzione materiale, e di servizi diversi. Mentre si afferma questa differenziazione, emerge un altro paradosso: le classi sociali si gerarchizzano inserendosi nello spazio, e questo moto sta accelerando anziché ridursi, come invece molti vorrebbero far credere. Presto sulla superficie della Terra non rimarranno che isole agricole e deserti di cemento.» [Lefebvre, 2017:238].

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Quindi punti di tangenza tra le diverse diagnosi di Koolhaas e Lefebvre? Entrambi individuavano, in effetti, alcune caratteristiche di massima che contrassegnavano il modello di un inedito sviluppo urbano nel quadro della globalizzazione, vale a dire: l’accelerazione, l’impetuosità e le grandi dimensioni dei processi, nonché la natura gerarchica –tendenzialmente autoritaria e non-democratica- dei nuovi spazi metropolitani. Se per Lefebvre tutto ciò era una tendenza riguardante l’intera superficie del globo, per Koolhaas la stessa si stava realizzando più localmente in aree non-occidentali.

La storia e i modelli teorici o teorizzabili dell’urbanizzazione subiscono oggi una stringente torsione, una sorta di avvitamento in se stessi, facendo emergere una non meglio afferrabile modernità alternativa a quella Occidentale. L’architetto di Rotterdam tiene a sottolineare la natura eminentemente politica di tali processi e sviluppi (non si tratta di sviluppo democratico). La direzione di questi processi poco o nulla ha da spartire con la “nostra” (di “occidentali”) concezione di civitas, proveniente dall’antico mondo classico romano-latino [cfr. Cacciari, 2009; Agamben, 2007; Cuppini, 2017:231]. Si tratta di crisi? Crisi è allora il concetto-chiave che, senza soluzione di continuità, annoda il “moderno” al “postmoderno”?

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Il moderno è un modello di razionalizzazione per un possibile ordine, eppure attraversato da contrasti e dissidi: si alimenta da sempre del conflitto (polemos), del “sospetto” -intorno ai suoi presunti fondamenti- che accompagna il suo svolgersi storico. Moderno diviene dispositivo: Sapere, Potere, Soggettività che «non hanno affatto contorni definiti una volta per tutte, ma sono catene variabili che si strappano l’un l’altra.» [Deleuze, 2007:11-12]. “Dialetticamente” il moderno presuppone un principio autofondativo positivo che intrinsecamente contiene il principio opposto, negativo-distruttivo. In questo senso il post-moderno è già contenuto nel moderno. Fondandosi sul “dubbio” intorno ai suoi stessi principi fondativo-costitutivi, il moderno ha una propria –riflessiva- conseguenza nella sua frammentazione postmoderna [cfr.: Cacciari, 1976; Lyotard, 1981; Franzini, 2018].

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Tanto il moderno quanto il postmoderno si riferiscono in modo precipuo all’architettura/urbanistica [cfr: Harvey, 2015; Franzini, 2018]. È moderno lo stile basato su principi e fondamenti razionalistici, su di un nitore strutturale del progetto architettonico: la forma che segue la funzione e il suo valore d’uso. È postmoderno tutto quanto concerne il superfluo, il non-utile, il citazionismo di un passato che non è più e che pertanto non può più avere alcun valore fondamentale (se non come astratto valore di scambio mercantile-estetizzante) in corpo alla struttura progettuale.

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Sono state moderne (moderniste) l’idea di una pianificazione urbanistica e la pratica di tradurre sul territorio un progetto di città, sull’asse del rapporto “città-campagna”. Segna un’esplosione postmodernista il movimento di generazione del rapporto “centro-periferie”: un’ininterrotta periferizzazione in relazione a centri sempre più “direzionali-decisionali” del potere/comando. Affrontiamo una nuova conformazione della relazione metropoli-colonie che segue la concreta funzione di ordinare la produzione/riproduzione dello spazio secondo determinate gerarchie dei rapporti sociali? Nell’antica Grecia metropolis indicava e identificava il territorio della “città-madre” ben distinguibile dai territori delle colonie. Chi fondava una colonia fuori dal territorio della polis si ritrovava nella condizione di “apoikia” (“allontanamento dalla casa” –abitazione-): «metropoli implica quindi la massima dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo. L’isonomia spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via di principio, estranea all’idea di metropoli.» [Agamben, 2007]

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Sorta e cresciuta con impressionante velocità sulla tabula rasa desertica, Dubai impone la propria emergenza a livello globale in piena sintonia con l’odierno “regime di competitività” neoliberista che la oppone, ma insieme la assimila, ad altre aspiranti world class-cities. Quello stesso insediamento umano che si presentava solo fino a circa mezzo secolo fa come un minuscolo villaggio di pescatori e raccoglitori di perle, si manifesta oggi come una nouvelle Ville Lumière: un panorama urbano in espansione modifica permanentemente un territorio molto ostile.

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Con la sua ampia offerta di zone esclusive (“gated communities”), lussuosi alberghi e grattacieli fra i più alti del mondo (Burj Khalifa, Burj al Arab…), enormi Shopping-Malls e affollatissime reti infrastrutturali, la metropoli del Golfo rappresenta un immenso collettore di enclaves per differenti classi sociali, nonché, al contempo, un crocevia di una crescente demografia multietnica: uno sviluppo accelerato con apparente assenza di conflitti sociali o contraddizioni “esplosive”.

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Geometrie sempre più complesse di vetro e acciaio che configurano edifici e spazi iconici: ecco l’urbanità di Dubai. Non diversamente da altre world-cities, anche l’Emirato mostra un’immagine spettacolare (nel senso debordiano) del proprio paesaggio urbano. Dubai quindi come un sogno postmoderno realizzato? Villaggio Globale, Eden per archistar e per fantasiosi e affamati urbanisti? Ancor più significativamente di altre metropoli globali, Dubai offre un ricettacolo, uno “spazio puro” per gli appetiti del capitalismo reale. Un’astrazione determinata/reale che estaticamente ripete un “pre-moderno” proiettato direttamente sul “post-moderno”, saltando completamente la dimensione critico-conflittuale del “moderno”.

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Una replica di tradizione “orientalistica” re-inventata che fa pendant con l’altrettanta replicata e confusa immagine importata di “Occidente”: una dichiaratamente falsa riproduzione della “civilizzazione”, con sovra/giustapposizione di orpelli di “identità”, “storia” e “tradizione” per offrire una città-gadget vendibile ad accattivati “turisti” alla ricerca di uno status globale.

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Nella sua cosmopolita demografia –appena un quinto della popolazione è indigena, “emiratina”- che ne definisce una struttura sociale e politica patentemente gerarchizzata, si trova realizzata una rigida divisione sociale del lavoro a cui corrisponde un’altrettanto ben distinta divisione del cosiddetto spazio “urbano”. Dubai è colma di luoghi di passaggio: è spazio in-betweeness. Rappresenta certamente una brand-world-city votata al consumismo.

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La sua superficie territoriale è quasi totalmente dedicata a un’immensa e perpetua circolazione di merci materiali e immateriali (prodotti, servizi, forza-lavoro, relazioni). Le sue infrastrutture (reali e virtuali) innervano un territorio urbano in-determinabile: articolazioni della tabula rasa-deserto. Dubai è una spazialità urbanizzabile dove l’eccedenza locale e mondiale di “ricchezza” (mobiliare e immobiliare) può essere moltiplicata, depauperata o continuamente reinvestita. Nella sua iconicità accumula il desiderio (non tanto il bisogno) di essere collegati con il “resto del mondo”.

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Con la sua spettacolarità, Dubai induce a essere guardata soprattutto “dal di fuori”, come parte di “ciò che potrebbe accadere” nel mondo globale, in un dis-ponibile tempo futuro. Non rispetta un principio o un modello esemplare: Dubai è un an-archetipo originario. Tutto “sta accadendo” qui e non altrove: Dubai , immanente eterotopia rovesciata.

 

Bibliografia

Agamben, G. (2007), “La città e la metropoli” in “Posse. Politica Filosofia Moltitudine”, novembre 2007.

Benjamin, W. (1995), Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino-

Cacciari, M. (1976), Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano;

-        (2009), La città, Pazzini, Rimini.

Debord, G (2004), La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano.

Deleuze, G. (2007), Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli.

Franzini, E. (2018), Moderno e postmoderno, Un bilancio, RaffaelloCortina, Milano.

Harvey, D. (2015), La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano;

-        (2012), Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, OmbreCorte, Verona.

Koolhaas, R. (2006), Junkspace, Quodlibet, Macerata;

-        (2010), Singapore Songlines. Ritratto di una metropoli Potemkin…o trent’anni di tabula rasa, Quodlibet, Macerata.

Lefebvre, H. (2014), Il diritto alla città, OmbreCorte, Verona;

-        (1989), “Quando la città si dissolve nella metamorfosi planetaria”, trad. it. e “Introduzione” di Cuppini, N. (2017) in Scienza & Politica, 56 (pagg. 223-239).

Lyotard, J.-F. (1981), La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano.